Kraftwerk

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Bruxelles vorrebbe definitivamente recedere dai contratti di fornitura di combustibile russo. Vorrebbe trovare una via perfettamente legale e possibilmente indolore dal punto di vista finanziario. Così non creerebbe pericolosi precedenti giuridici e non dovrebbe pagare pesanti penalità che inficerebbero le aspirazioni ideologiche che muovono la Commissione Europea. Si tratta di un compito estremamente difficile, sebbene appaia semplice a chi crede che sia sufficiente dire basta e chiudere i rubinetti dei gasdotti. E invece è complicato sotto tutti i piani, compreso quello politico, che vede Ungheria, Slovacchia e altri Paesi poco propensi a fermare le forniture energetiche, indispensabili a cittadini e industrie.

 

Il nucleare iraniano non è solo al centro di dibattiti diplomatici, ma anche di incursioni militari portare dagli israeliani e dagli americani stessi contro i gruppi sostenuti da Teheran. Per adesso è una specie di guerriglia per procura, ma Washington e Tel Aviv minacciano quasi apertamente di voler attaccare direttamente le infrastrutture nucleari iraniane. Sarebbe un azzardo. Forse lo sanno, forse no, ma Mosca vuole togliere loro ogni dubbio e fa sapere in modo indiretto che non lascerebbe senza conseguenze un'azione del genere. E lo stesso governo iraniano ha comunicato tramite la diplomazia svizzera la sua determinazione a non abbassare la testa di fronte alle richieste o meglio alle imposizioni dei suoi avversari.

 

Quello della Turchia può essere definito come espansionismo diplomatico ed economico, ma caratterizzato da una forte componente militare e religiosa che inquieta non poco i greci. Infatti Erdogan spinge per ratificare il prima possibile gli accordi bilaterali stretti con Paesi balcanici con grossa componente musulmana, cioè Albania, Kosovo e Macedonia del Nord. Nel frattempo l'arena di scontro fra Grecia e Turchia nel Mar Egeo resta sempre estremamente tesa. Il fatto che entrambi i Paesi appartengano alla NATO rende il tutto ancora più complicato e imbarazzante.

 

Non è ancora stato fatto un piano preciso per eliminare del tutto le importazioni di gas russo entro il 2027. O almeno Bruxelles ancora non lo ha annunciato, sebbene sia questo il momento, ammesso che si voglia davvero arrivare a quel risultato. I tentennamenti della UE e dei suoi Paesi membri nascondono una realtà variegata e molto amara per i fautori della transizione green e per i nemici ideologici della Russia. I dati che escono dal bilancio 2024 parlano di una crescita complessiva degli acquisti di gas russo da parte degli Stati UE, in particolare di Francia, Italia e Repubblica Ceca. Si sa che Ungheria e Slovacchia sono esplicitamente contrari, altri Paesi sono indecisi, e persino quelli apertamente desiderosi di chiudere ogni contatto economico con Mosca non possono impedire che altri importino le fonti energetiche russe che non cadono sotto sanzioni. Per loro, vi è un’altra recente brutta notizia, quella della possibilità di un dialogo fra Casa Bianca e Cremlino a proposito del ripristino del Nord Stream. Se tale gasdotto fosse rimesso in funzione, la Commissione Europea dovrebbe probabilmente riscrivere da capo tutto il suo piano di indipendenza energetica.

 

Il governo provvisorio della Siria sta provando ad allargare i propri orizzonti politici e diplomatici. Tenersi in piedi su una sola gamba, quella dei fondamentalisti alimentati da Ankara, sta diventando impossibile. Così, per tenere unita la Siria e non cedere alle spinte settarie e centrifughe, il presidente ad interim al-Sharaa ha stretto un accordo con i curdi delle SDF. La Turchia non ha gradito, ma non può impedire ai siriani un certo margine di manovra, altrimenti scoprirebbe le sue carte in maniera plateale. Non è un segreto per nessuno che i turchi vogliono restare ben piantata nel nord della Siria e magari spingersi più a sud, ma a trattenerli vi sono gli altri attori in gioco nel grande teatro mediorientale. In primo luogo Israele, con cui è in atto una sorta di guerra fredda fatta di avvertimenti indiretti e minacce velate. Poi anche gli americani e i russi, che sembrano aver raggiunto tra loro una posizione di compromesso che li rende ancora più indigesti ad Ankara.

 

Intervista col generale Carlo Landi, già comandante della Divisione “Centro Sperimentale di Volo” e consigliere militare nella delegazione italiana all’OSCE. Con molta lucidità e umanità, Landi spiega quei retroscena che molti intuivano, ma che pochi nel panorama politico e mediatico occidentale hanno avuto il coraggio di esporre. Il punto essenziale è il fatto che il conflitto in Ucraina sia stata una guerra per procura mossa dagli USA alla Russia, o più in generale dalla NATO a Mosca nell’ottica dell’allargamento progressivo dell’Alleanza fino ai confini russi. Pur condannando in sé l’azione militare, Landi riconosce che si tratta molto probabilmente di una reazione del Cremlino alla minaccia percepita di un’Alleanza militare piuttosto aggressiva che si è spinta troppo avanti. Per lui, la “grande sconfitta” purtroppo è l’Europa. Anche in Italia, tutti hanno ormai capito che dietro all’idea di un esercito europeo e di un riarmo costosissimo non ci sono i valori democratici, ma gli interessi economici.

 

Poco prima della scenata storica fatta da Trump a Zelensky, c’era stato un altro vertice nello Studio Ovale dai risultati non entusiasmanti, per usare un eufemismo. Un incontro a tratti imbarazzante e a tratti ridicolo, che non ha portato a nulla: quello fra Trump e il presidente francese Macron, venuto appositamente da Parigi per convincere Washington a portare l’Europa al tavolo delle trattative. Fra i due leader c’era un’atmosfera di disagio, interrotta da qualche momento di ilarità forse involontaria. Macron si è sforzato molto per tirare Trump dalla sua parte e di renderlo partecipe del quadro di armonia e simpatia che voleva creare, ma non ci è riuscito. Il presidente americano ha fatto solo qualche vaga promessa e già dopo qualche giorno si è visto quanto fossero vuoti questi mezzi impegni. Persino il mainstream non ha potuto nascondere l’entità della figuraccia francese, ma la tragicomica visita di Zelensky ha poi eclissato qualunque altro momento di diplomazia “difficile” verificatosi nella storia.

 

Hanno scatenato grosse polemiche le recenti dichiarazioni di Karol Nawrocki, candidato per il partito PiS alle presidenziali di maggio in Polonia. Parlando ai suoi sostenitori nella città di Legionowo, ha accusato i vertici europei di aver causato un “caos” con il loro approccio a Putin e alla questione ucraina. Il risultato delle decisioni prese negli anni dalle élite europee è stato il conflitto armato che oggi sembra sul punto di finire. Nawrocki è il candidato di Pis, (Prawo i Sprawiedliwość), partito di opposizione che ha governato per diversi anni e ha ancora un suo esponente come Presidente della Repubblica a Varsavia. I rappresentanti della maggioranza hanno reagito con sdegno alle parole di Nawrocki, invitando lui a scusarsi e a cambiare idea e il suo partito a sostituirlo con un altro candidato.

 

Zelensky vede sfumare progressivamente l’appoggio avuto finora dai partner, amici o alleati occidentali. In primis gli USA: il principale sponsor finanziario, militare e diplomatico dell’Ucraina si sta defilando dalla questione in maniera estremamente dolorosa, fra dichiarazioni astiose e tentativi di costrizione a firmare. Si potrebbe anzi dire che Washington sta proprio cercando di ridefinire i termini dell’alleanza in un modo che Kiev forse nemmeno immaginava. L’essere rimasta fuori dal primo contatto USA-Russia avvenuto in Arabia Saudita è un pessimo segnale. Ed è un segnale che indirettamente ha raggiunto i Paesi europei della NATO, quelli che ospitano le basi americane e dunque dipendono in un modo più o meno esplicito dalla Casa Bianca. Si notano già i primi timidi accendi di modifica nel tono della narrativa che esce dal mainstream continentale. Non più eroico né democratico, ma vittima della sua ambizione e forse carnefice del suo popolo: Zelensky viene dipinto con colori diversi da quelli usati fino allo scorso anno. Le elezioni in Germania porteranno necessariamente a un cambiamento di approccio di Berlino nei suoi confronti e probabilmente non è una buona notizia per il presidente ucraino. E anche chi resta al suo fianco fa fatica a imporsi, data la varietà di vedute che regna fra i partner europei.

 

La storica telefonata di Trump a Putin della scorsa settimana ha segnato una svolta ufficiale nei rapporti fra i rispettivi Paesi. E si sa che di riflesso i cambiamenti arriveranno anche agli Stati che in un modo o nell’altro dipendono da essi o sono sotto la loro influenza. L’Europa accusa la nuova amministrazione repubblicana di agevolare il ritorno di Mosca sulla scena come partner commerciale, finanziario e diplomatico in un contesto di “normalità”. In altre parole gli USA aiutano la Russia a togliersi l’etichetta di Paese “canaglia” che Bruxelles e la amministrazione Biden gli aveva affibbiato con molto sforzo. La normalizzazione attuale passa in primo luogo da un dialogo cordiale e proficuo fra i leader, di cui Trump si è detto estremamente contento, e da uno rilascio dei reclusi che pare uno scambio di cortesie. Mosca ha già fatto tornare a Washington un detenuto americano che da tre anni stava nelle prigioni russe e la Casa Bianca farà altrettanto con un hacker russo. Inoltre dal segretario alla Difesa USA arrivano dichiarazioni sull’Ucraina che spianano la strada alle richieste russe e annullano in un colpo solo tutta la politica estera UE/NATO.

 

In Europa si sta parlando molto di riarmo e di rafforzamento degli eserciti nazionali nel breve e nel medio periodo. Per implementare un progetto del genere occorrono ingenti risorse finanziarie, di cui la maggioranza dei Paesi UE non dispone. Anzi, non è facile nemmeno per il Regno Unito, il cui premier Starmer ha rinnovato l’impegno di militarizzazione, ma ha anche ammesso la situazione poco rosea del budget di Londra. Da Bruxelles spingono per convincere i governi degli Stati membri a dare la priorità alla difesa rispetto a istruzione, sanità e welfare. La commissaria estone Kallas ha infatti spiegato che occorre assolutamente spendere di più allo scopo di prevenire la guerra. E in Germania, dove le imminenti elezioni inducono i candidati a parlare più delle necessità della cittadinanza che di quelle dell’esercito, il ministro della Difesa Pistorius insiste comunque sul tema. Per lui il 2% del PIL destinato alla Bundeswehr deve essere solo l’inizio di una crescita di tale spesa a ritmi e volumi molto superiori.

 

Iuliia Mendel è stata la portavoce dell'amministrazione presidenziale di Kiev dal 2019 al 2021. Oggi in un articolo pubblicato dal Time esorta Zelensky a ottenere una tregua il prima possibile. Non la per ragioni politiche, dice, ma essenzialmente sociali. Secondo lei infatti è in ballo la sopravvivenza stessa della nazione ucraina. Solamente un cessate-il-fuoco può fermare l'emorragia di cervelli, di denaro e di speranza che affligge la popolazione. Poi vi saranno le trattative e il ritorno alla normalità, anche tramite elezioni democratiche.

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